La strada rovesciata

A dicembre 2011 si è tenuta a Belluno la conferenza dal titolo "La strada rovesciata - Ricerca del vero o bolle di senso?, incontro e dibattito con l'autore Pier Mario Vello.
La poesia come "luogo" in cui fare contestazione, pensare le cose in modo diverso, rompendo gli schemi abituali, vere e proprie bolle di senso in cui l'uomo contemporaneo è chiuso.
La serata è stata organizzata dall'Associazione Bellunesi nel Mondo, www.bellunoradici.net.
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Gran Premio della Giuria a "Utopia di una margherita"

Il Consolato Generale dell'Ecuador a Milano e l'Organizzazione del Premio Letterario Internazionale di Poesia e Narrativa "L'Integrazione Culturale per un Mondo Migliore" hanno conferito il Gran Premio della Giuria a Pier Mario Vello per il libro "Utopia di una margherita", edito da L'arcolaio 2010.
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Il mare della dissomiglianza

(....)

“Dio sta all’inizio e alla fine del mondo” — mi dicesti.

“Non cercarlo è premio. Dopo averla del tutto

srotolata, ora riporta indietro la nave del cielo.

Ha cura che il mondo non dissolva e inabissi
in quel mare della dissomiglianza, ai timoni

lo rende immortale e senza vecchiaia”.

Stridono funi e tiranti nel cielo,

ci flettono allora con flussi e cavi

ci tendono alla luce percolante,

ci consegnano a scie di risonanze,

novelle connessioni e legamenti.

Gli infiniti noi, tesi

da gran architettura

rassegniamo un lungo sospiro.

L’ogni d’ogni fibra inverte la cruna, e in oscura

prima lingua ecco connettere il muone alla festa.

Il fotone tintinna di gioia. Vuota, l’origine

zampilla di giochi. Di salto in salto, di terra

in terra un capriolare in nuova gioia,

felicità resiliente. E le vecchie vite errabonde

di ombre ciondolanti, migranti di fatto

e di mente, sono flashate all’impeto del bene

come lampi di treni ai passaggi a livello.

Mentre senza rimedio te ne andavi

mi rivelavi ad occhi aperti il niente.

Paterna gravidanza. Ruscellante

gioia, intimo fulgore. Convergevi calando

in calde labbra e fuoco dimostravi

facendo sgabello a nuove purezze.

Mi insegnavi che il respiro in origine

è senza perché, che io diverrò altro,

tu in perdute particole di luce,

non conoscendoci per quel che fummo.

Quest’unico dolore spanderà

me stesso nella gioia, mosto gonfio

del nostro schiumeggiante ribollire

nel puro gioco di nuovi noi stessi

dentro il fulgido fondo.

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Fisiognomica politica (da "Utopia di una margherita")

Immaginavo che si stendesse una coltre

di neve e che la cipria serale infine espiasse

nella più buia notte ogni astrusa secchezza

della pelle, ogni cinismo dei menti volitivi.

Di partita in partita gli uomini della giocata

ingrassano, assumono fisiognomici profili.

Con buona attitudine annusano i simili

sotto le camicie e per simbiotica somiglianza

si alleano. I discorsi si devono fare lenti e pacati
sull’orlo dell’insipienza e della derisione.

Né angeli né demoni, ma solo truccate
tessere del Dio, qua e là.

Io fra loro indosso
una mantiglia nera.

Mi dipingo le unghie
di metallico grigio
sulle labbra ho messo
un colore di morte foglie
recito una fuga
ora un temporale
ora sono una fune tenuta
tesa e infine tagliata.

La generale finanza aborrisce le negatività
e ama i cocktail. E in lucide mostrine

spreca le luci della città e disperde i sogni.
I bottoni sono quasi strappati sulle camice

dei grassi seduti in penombra sui divani. Simili

a stolti gatti nobili osserviamo la schiena

delle cose e non il volto degli dei.

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Di fronte alla pira di Patroclo

Quel vuoto fumigante che a casa la brace faceva
qui diversamente e meno teneramente lo sostenemmo
nell’occhio a stipare entro un dolore rituale, un fumo
nel liquido quieto del lacrimar perverso di noi soldati.


Sotto la paranoia di Achille per nulla lieti e di traverso
con fragore si esterna, palpita, essuda la nostra palpebra.
Sternutisce sbotta si scherma, al fumare di Patroclo che
s’invola in cenere, la lieta, l’attizzante, l’ammiccante.

Lui ci traversa, contenuto nel vapore della pira che vola.
S’inabissa su noi truppa, ci fascia di fastidi e fugge,
fa strani sbaffi tra gli scudi e le lance puntute.
Giganteggia la sua pira e lui su ancor più bello e mite.

La sfera umida e morbida del nostro occhio intanto
veleggia iridata e vede chiarori cristallini appannati,

per noi solo scettiche scintille della vittoria
un tremolare tra figuri armati e condottieri imperfetti.


Qui di stanza obbligata, esitiamo in un dubitare
che l’occhio ci rimbalza per equivoci bagliori

direttamente sulla fovea ribelle ad ogni fuoco

dove Zeus forse siede in trono e non si vede.

Un blick dell’occhio e rivediamo la pira sulla piana
come la si vedrebbe dalla rocca di Troia. Nera
fumigante che scopa l’orizzonte con la ramazza dura
di cenere e sacramentate particole di storia.

Ancora l’occhio fa un blick e nel sadomasochismo
medioevale la pira fumava torbida da slegati sacrari.
Trafugati sacelli e simboli come fiordi s’infiltrano
in credenze e da stroboscopiche balaustre mitizzano.

Un altro lacrimoso Augenblick della storia e si dissolve
in languida prospettiva ancora lei, pira nera stellata
che a sua volta allunga l’ombra sulla pletora dei militi.

Si spacca, abbrustolisce, nazisticamente si compiace.

Chiudo gli occhi attossicati dal fumo e nella lacrima
che singulta tra le fiamme vedo vittorie velate di nebbia.

Soldatesche vittorie che hanno virato dal vero, una verità
percolante dal corpo di Patroclo altero, la sua pira che dura.

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Lo specchio rotto (da "La casa sonora")

Per varcare la tolda o il Senato
scende il governante in un’intima botte.
In catalessi steso tra ombretti al catafalco
nell’interiore rovello e nel torvo amore di sé

per la narcisistica prospettazione alle folle
si ammira quanto è bello eppur non si piace,
non si dà pace.

Dalle ubertose distese delle ciglia
all’estesa altura del parrucco,
dalla fronte sovrana per le folle
al frontespizio del petto rigonfio
governa il trucco e l’occhio non stacca
da ogni dettaglio e balla
farfuglia controlla.

Con l’orgoglio della tempra che fu,
scava la tempia e la brizzola colora.
Tinge con matita e, come sfinge
che s’interroga e si piace, si pone
nello sfizio dello specchio, si osserva
dall’orifizio dell’occhio nella distanza
in metastatica posa per ore.

Si mandano lampi, si muovono specchi
per angoli inusitati e nuovi fondocampi.

Di sopra di sotto di lato getta luce
sulla luce, misura ogni passo
tra lo spasso e la noia dei lacchè.

Sulla molatura rifratta si osserva
casualmente vedersi passare.

Ripassa per vedere alla prova di luce
se vedere si dovesse da lontano,
così, casualmente, passare.

Ma nel ciak filmografico e nella rifrattura
manca sempre un plissè di perfetto bulino.
E il burino con rabbiosa mascella ricerca
il pelino che non c’è e lo divora.

Se non fosse che

tutta la gran diverticolata massa di persone

dall’inguine lubrìco della nave tracimava.

Si toccavano, respingevano e per dinoccolate
giunture di aerovie e ferrovie, sotto altoparlanti
stridevano, finché in tane grigio-asettiche
di caserme-alveari finivano la sera a mugolare.

Ma non tane che usammo per gioco.

Là dentro la muratura di una divaricata difesa
in scafoidi da titubanza e da terrore chiusi
occhi in ombra covavano emotivamente piatti.

Né braccia flaccide né colli cisposi si scalfivano
ormai più per gli eventi che accadono attorno
scontando d’aver guadagnato il bottino di senso.

La gran parte non rispondeva ai fatti
né buoni né cattivi. Altri, forti e nerboruti,
ma in distacco perenne tentennavano
per campi nebbiosi o per offuscamenti ostili.

Si radunavano come intorno a cucine spente.

Sotto lampade nere lo stacco dalle sponde
lasciava che eventi importanti si spegnessero.

Comici scoppi d’immotivata ira
né brevi né superficiali, anche acuti
ma tristemente contorti, giravano intorno
intorno senza giungere al parto. S’interpone
una tremenda màcula tra l’occhio e lo specchio.
Vedevi solo gli spicchi in cui è rifratto il sé ed è
puntato con spilli su una tavola tesa.

La loro tosse seminava il silenzio di crasi.

Col tendine umido staccavano olofrasi in sms
ma nessuno che cadesse oltre il lebbrosario spento.
Esclamavano detti da non dire e formavano
nidi nella pomice. Collezionavano fori neri, piastre, tiranti

e futili rametti. Esercitavano nella piana degli sterpi
una ribollita mestizia e un’astuta astinenza d’essere.

Vai anche tu per via e distogli dall’indifferenza

o dall’improvviso furore dei sogni sconnessi i cascami.

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La tessitura (da "La casa sonora")

Lavorano nell’ora del lapsus di luce

nei cortili spenti sul dorso del mondo virile

nel sopore notturno quando ovunque calmato

è il senso nella diastole d’esistere. Tre donne,

Lina, Clara, Pia nel labor vorticoso di flanella

con volo di mani, lane a cascate e zampilli.

Uno la madre, due la gioia bionda, tre la tristezza

che interroga muta. Cesio cesura cesoie

sul panno del tavolo sartoriale.

Tre schiene curve scialle silenzio e tre

scagnèl da stalla. Cucire l’a con il b,

e l’omega della storia. Mettere estro

al nodo sotto la tela con premura
al tiro svelto, pollice e indice volando

in trama legato il filo, poi riemerso all’aria

d’intesa e gioia. Anche recidere.

Silenzio, favella e mutismo. Gelida

umidità d’imminente novembre, giù

discesa a fetida pastoia muta, alle porte,

ai nasi di cava cartilagine delle vacche

che risuonano al fiato così fragili.

A ogni silenzioso annodare un flash: la profezia,

l’epoca delle corse ai treni, il sole della piccola

opulenza utilitaria e proletaria, i tinelli lindi

il dito amputato di Paola in macelleria,

la malattia e le tre cose buone della notte:

il silenzio, la verità, l’immagine.

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