Lo specchio rotto (da "La casa sonora")

Per varcare la tolda o il Senato
scende il governante in un’intima botte.
In catalessi steso tra ombretti al catafalco
nell’interiore rovello e nel torvo amore di sé

per la narcisistica prospettazione alle folle
si ammira quanto è bello eppur non si piace,
non si dà pace.

Dalle ubertose distese delle ciglia
all’estesa altura del parrucco,
dalla fronte sovrana per le folle
al frontespizio del petto rigonfio
governa il trucco e l’occhio non stacca
da ogni dettaglio e balla
farfuglia controlla.

Con l’orgoglio della tempra che fu,
scava la tempia e la brizzola colora.
Tinge con matita e, come sfinge
che s’interroga e si piace, si pone
nello sfizio dello specchio, si osserva
dall’orifizio dell’occhio nella distanza
in metastatica posa per ore.

Si mandano lampi, si muovono specchi
per angoli inusitati e nuovi fondocampi.

Di sopra di sotto di lato getta luce
sulla luce, misura ogni passo
tra lo spasso e la noia dei lacchè.

Sulla molatura rifratta si osserva
casualmente vedersi passare.

Ripassa per vedere alla prova di luce
se vedere si dovesse da lontano,
così, casualmente, passare.

Ma nel ciak filmografico e nella rifrattura
manca sempre un plissè di perfetto bulino.
E il burino con rabbiosa mascella ricerca
il pelino che non c’è e lo divora.

Se non fosse che

tutta la gran diverticolata massa di persone

dall’inguine lubrìco della nave tracimava.

Si toccavano, respingevano e per dinoccolate
giunture di aerovie e ferrovie, sotto altoparlanti
stridevano, finché in tane grigio-asettiche
di caserme-alveari finivano la sera a mugolare.

Ma non tane che usammo per gioco.

Là dentro la muratura di una divaricata difesa
in scafoidi da titubanza e da terrore chiusi
occhi in ombra covavano emotivamente piatti.

Né braccia flaccide né colli cisposi si scalfivano
ormai più per gli eventi che accadono attorno
scontando d’aver guadagnato il bottino di senso.

La gran parte non rispondeva ai fatti
né buoni né cattivi. Altri, forti e nerboruti,
ma in distacco perenne tentennavano
per campi nebbiosi o per offuscamenti ostili.

Si radunavano come intorno a cucine spente.

Sotto lampade nere lo stacco dalle sponde
lasciava che eventi importanti si spegnessero.

Comici scoppi d’immotivata ira
né brevi né superficiali, anche acuti
ma tristemente contorti, giravano intorno
intorno senza giungere al parto. S’interpone
una tremenda màcula tra l’occhio e lo specchio.
Vedevi solo gli spicchi in cui è rifratto il sé ed è
puntato con spilli su una tavola tesa.

La loro tosse seminava il silenzio di crasi.

Col tendine umido staccavano olofrasi in sms
ma nessuno che cadesse oltre il lebbrosario spento.
Esclamavano detti da non dire e formavano
nidi nella pomice. Collezionavano fori neri, piastre, tiranti

e futili rametti. Esercitavano nella piana degli sterpi
una ribollita mestizia e un’astuta astinenza d’essere.

Vai anche tu per via e distogli dall’indifferenza

o dall’improvviso furore dei sogni sconnessi i cascami.

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